Calabria. Viaggio lungo la strada dei due mari - Avanti

2022-05-13 04:00:53 By : Mr. Bertram Young

Si corre lungo la statale ionica verso Reggio dopo aver lasciato la bretella che collega Lamezia terme a Catanzaro lido. La strada di collegamento tra i due mari, da poco tempo è stata rifatta a quattro corsie. Accanto, a tratti, corre la vecchia statale, minuta, discreta, rispettosa del circostante, circospetta, come a non disturbare, a sciogliersi ed amalgamarsi con le argille e gli sterpi intorno, che parlano di primitività selvaggia e violenta, dove il fuoco distrugge la progettualità della natura e dell’uomo. Paesaggio assoluto, straordinario, fatto di terra, di vento, di luce accecante; la cui vita è tutta interna, nascosta. Non si rapprende in vegetazione, animali, umani, è prima di tutto questo, ne precede la dirompente esplosione e la storia. Oggi vi hanno costruito l’autostrada. Sui rilievi, pale eoliche, tragicamente immobili, non rispondono al vento violento che le investe, mute, testimoni di un tentativo abortito di vincere la natura gelosa ed ostile. Poche automobili lungo l’asfalto, a palesare l’infruttuosità dell’intervento umano. Però quando si arriva sullo Ionio si riprende la vecchia statale a due corsie, che si restringe ad una, quando scavalca le fiumare su ponti antichi, che sembrano ai nostri occhi profani, una sfida alla statica, con quel castello di cemento armato sopra il nastro d’asfalto. Sembra che quell’arco sospeso in alto finirà per schiacciare la strada, invece la sospende e le fa sop- portare il peso dei mezzi che transitano. Ma lì, sul ponte, la carreggiata è stretta e le macchi- ne si sfiorano se la percorrono contemporaneamente, incontrandosi. E infatti all’ingresso del ponte in sequenza alternante c’è il segnale di dare la precedenza che non tutti rispettano. Belli a vedersi questi ponti fatti a campate, qualcuno lunghissimo come quello di Soverato. Li costruirono nel ventennio come la statale ionica che prima era solo un tratturo e per quei tempi diventò un’arteria di comunicazione delle Calabrie e della Puglia sino a Taranto. Collegava i centri sulla marina che stavano nascendo alternativi agli antichi paesi sulle colline, che si andarono spopolando con la gente che emigrava all’estero o al Nord–Italia, o altrimenti più semplicemente si spostava sulla marina. La strada attraversa paesi di recente bruttezza cementizia, incompiuti, tentativo abortivo di modernità, nella speranza di un lancio turistico, problematico per l’antropologia autoctona del posto, dove la gente in gran parte è migrata. Agglomerati brutti e senza più identità. Tirati su a cemento e asfalto, frutti del sogno di una modernità che non sa di sviluppo, ma più semplicemente di speculazione edilizia. Ma ai paesi si alternano ancora, per miracolo inatteso, tratti di spiaggia intatta, che sottrae a stento il poco spazio del bagnasciuga ai campi coltivati in prossimità del mare; e a questi seguono tratti di vegetazione spontanea dominata da grandi pini ed eucalipti. Contrapposto al mare, a destra per noi che scendiamo verso Reggio, il terreno si fa subito collina e dietro e sopra si ergono gli alti contrafforti delle “Serre” che si frappongono tra l’Aspromonte reggino e la Sila verso Cosenza. Paesi si affacciano come miraggi sulla alture, contrapposti ai paesi della marina. Si arriva a Monasterace dopo un lungo rettifilo che termina con una curva a sinistra, al di sotto di un rilievo, dove s’innalza il faro di avvistamento per i naviganti. Perché qui siamo sulla punta di un promontorio che si protende nel mare: punta Stilo. Sotto il faro a sinistra della carreggiata, i resti del tempio dorico che si affaccia sul mare sottostante da una sorta di terrazza naturale, dalla quale i sacerdoti e gli uomini della città controllavano l’arrivo delle navi dalla Grecia. Il tempio era dedicato agli dei che vegliavano su quanti dovevano affrontare o dovevano arrivare dal mare, profondo e nemico. Ringraziamento a un tempo e invocazione nella sacralità del luogo. Qui hanno trovato colonne in gran numero nel fondo del mare, a pochi chilometri di distanza dai bronzi di Riace. Le rovine giacciono nel silenzio assoluto del sole mediterraneo, interrotto dalle onde che si infrangono sulla spiaggia, e d’estate dalle voci degli archeologi che riportano alla luce i resti sepolti del tempio e del- la città antica intorno, di Caulonia. I terremoti, le mareggiate e l’uomo nel corso dei millenni hanno ridotto in macerie l’antica bellezza. Resti, di cui alcuni imponenti, raccolti nel vicino museo o a Reggio. L’anno scorso è tornato alla luce un mosaico raffigurante animali marini perfettamente conservato, ricoperto dalle tegole del tetto della casa franata. Tratti di intonaco affrescato si alternavano ai frammenti di tegole. Il mosaico è stato liberato e ripulito per tutta la sua estensione e alla fine è apparso in tutto il suo splendore. Lo hanno fotografato, e poi è stato ricoperto da un telo di plastica e una sottile coltre di terra in attesa di un futuro quando, se ci sarà il denaro, qualcuno deciderà cosa farne. Sul limitare del terrapieno dove sorge il tempio una garitta militare in cemento armato con la feritoia aperta verso il mare, all’interno rifiuti e vegetazione spontanea nata in mezzo secolo dalla fine della guerra. Non segni di battaglie sulle pareti a testimonianza della inadeguatezza e inutilità di quella difesa. Gli invasori erano passati oltre senza neanche av- vedersene o dedicarle un’attenzione. La notte, la luce intermittente, illumina le rovine ed è come le donasse un qualche tipo di vita, uno sforzo impossibile contro il tempo livellatore.

Dallo Ionio che bagna il promontorio di punta Stilo si sale sulla montagna, baluardo che divide la Calabria ionica da quella tirrenica. La strada corre per lungo tratto in pianura, lungo la fiumara, per poi improvvisamente inerpicarsi su tornanti che conducono alle Serre, gli Appennini di questo tratto di Calabria tra l’Aspromonte e la Sila. In un passaggio della catena montuosa, sorta di fessura tenebrosa dove la strada si getta per toccare Pazzano, e Bivongi e scendere di là nel Tirreno, sorge Stilo la città di Tommaso Campanella. Città, non borgo, quasi deserta nel centro antico come la maggior parte dei paesi calabresi, ma qui la dimensione è maestosa. Palazzi in rovina sontuosi, accanto a monasteri, castelli bizantini e chiese cattoliche e greco–ortodosse. Le case si inerpicano sulla montagna, ma sul lato nord sono sospese sopra una forra profondissima dove pascolano le capre. Qui un viottolo scavato nella roccia lungo alcu- ne centinaia di metri conduce ad una chiesetta rupestre ricavata nel costone della montagna intorno all’anno mille.

Lì ho incontrato un uomo. Abbiamo parlato, mi ha detto che aveva risposto ad una chiamata. E appena faceva giorno sino a quando il sole scompariva dietro i monti lavorava su quel sentiero per renderlo sicuro e praticabile per la gente che doveva percorrerla a chiedere una grazia, a dire una preghiera alla Vergine raffigurata all’interno dell’E- remo detto della Pastorella. Il sentiero si snoda lungo il costone della monta- gna a precipizio sul burrone sottostante. Da solo, tutto il giorno, lavora come un forsennato con gli arnesi e i materiali dei muratori, un piccolo cantiere messo in piedi dalla provvidenza. Questo è il secondo anno che ci lavora, la strada è quasi finita, ha fatto una staccionata che protegge dalla paura di cadere nel burrone. La mano può scorrere lungo il legno da cui trae conforto e dall’altra parte c’è la roccia amica su cui ha scavato nicchie, e dentro, piccoli giardini sospesi su cui nascono piante grasse e fiori del colore violento di quaggiù. Al termine della stradina si apre l’antro scavato nella roccia. È posto in discesa, una scalinata termina nella grotta. Sul pianoro del luogo sacro ci sono delle sedie e in fondo un piccolo altare con sopra l’effigie della Madonna con il bambino in collo. La rocci. sa intorno che forma le pareti e il soffitto mostra tracce scolorate di pitture rupestri antiche. Il silenzio è assoluto e noi due ci raccogliamo per una preghiera e un ringraziamento. Il belare delle capre sospese sul burrone sono il suono, la musica, l’armonia delle nostre preghiere. Si ritorna frastornati

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